Il giorno 10 gennaio 2017, all’indomani della riapertura dell’attività scolastica dopo le festività natalizie, gli studenti delle due classi Prime del nostro Istituto – 1^A Informatica e 1^A Turismo – hanno ritrovato qualcosa della magica atmosfera delle feste appena trascorse nell’incanto che l’attore e regista Corrado D’Elia ha saputo trasmettere dal palcoscenico del Teatro Litta di Milano nel suo spettacolo “Novecento”, applaudito e acclamato dal pubblico in ogni sua data.
Ore 10, corso Magenta. I ragazzi – accompagnati dalle docenti Daniela Ferro e Giorgia Tremolada – hanno accolto l’ingresso in scena dell’attore con emozione e stupore. “Non si è completamente fregati finché si ha una buona storia da raccontare”: recita così l’esordio, sulla libera interpretazione che D’Elia ha dato del romanzo di Alessandro Baricco, da cui ha tratto ispirazione e soggetto anche il film “La leggenda del pianista sull’Oceano”.
“Novecento” racconta la storia surreale – suggestiva e onirica, nel suo sapore agrodolce - di Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il più grande pianista del mondo, nato su una nave su cui è rimasto ogni giorno della sua vita, spaventato, bloccato, irrigidito dal solo pensiero di dover mettere piede sulla terraferma.
È la storia di un uomo, ma anche della sua musica, che indossa il frac come il corpo che muove le mani sui tasti del pianoforte. Che tipo di musica è? – si chiedono i passeggeri della nave, fuori scena, e gli spettatori a teatro, trascinati da un ritmo che supera gli angusti limiti cronologici di un tempo – gli anni Venti, gli “anni ruggenti” – che tanto hanno sperimentato, prima dì dissolversi nella Grande Depressione. È indefinibile, eterogenea, soprattutto quando “il pianista sull’Oceano” suonava in terza classe, per i passeggeri di serie C, il cui biglietto non dava diritto ai piaceri di un’orchestra
La dimensione è quella del ricordo, denso, intenso, condensato nel monologo, che fa vibrare le corde dell’anima come quelle dello strumento musicale, in un’atmosfera sfumata, che strizza l’occhio al sogno ad occhi aperti.
Come accade con le grandi storie che parlano del tempo che fu e riempiono le ore più lunghe, nelle sere umide e fredde d’inverno, dalla voce rotta e rauca di un marinaio, tra un sorso di whisky e l’altro, in una taverna per avventori che sono vecchi lupi di mare. E ascoltata tra incanto e incredulità, tra verità e allucinazione.
Il tempo della storia è un invito a perdersi nelle suggestioni dell’immaginazione, che sfiora con un tocco delicato i meravigliosi anni Venti, che hanno consacrato il jazz, quando ogni cosa sembrava muoversi seguendo quel ritmo irresistibile in cui parole e musica si incontrano in accordo e invertono i ruoli: la musica esce dalle parole, le note raccontano, in un linguaggio che si sedimenta in un testo e in uno spartito, che coincidono in un unicum, in una sinestesia sensoriale che è, in fondo, quella della poesia.
E lo spazio? È una nave, il “Virginian”, un nome esotico, che sa di lontano, di “oltre”, di leggenda. È un transatlantico che fa la spola dall'Europa alle coste statunitensi dove per molti inizia e si infrange il sogno americano.
Novecento è un monologo, sì, ma dalle mille e uno sfaccettature. Perché in ogni sua singola parola si incarna un ideale di speranza, un pezzetto del desiderio di ognuno di noi di andare e restare. Ogni sillaba è l’atomo di una favola in cui la malinconia si strugge nell’ironia di cui pure è capace. A ritmo di ragtime.