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SCUOLA FREUD - ISTITUTO FREUD - HO SEMPRE CREDUTO NEL DESTINO

27 aprile 2022

SCUOLA FREUD – ISTITUTO FREUD

Tecnico Tecnologico – Tecnico Economico – Liceo Economico Sociale

HO SEMPRE CREDUTO NEL DESTINO

A cura di Francesca Manzoni

 

Ho sempre creduto nel destino: ero certo che tutti avessero una storia già scritta e firmata, una strada da cui non si sarebbe potuti scappare, una trama con già il finale. Niente poteva accadere per puro caso. 

Pensavo che la vita si dividesse in protagonisti e personaggi secondari e che nessuno potesse scegliere il proprio ruolo.  La vita ti insegna che, nel momento in cui sei un personaggio secondario, non puoi più fare nulla, devi stare da parte, nell’angolo buio, a dar luce al protagonista. Puoi anche lottare con tutte le forze, gridare a squarciagola, strapparti i vestiti e farti del male, puoi dimostrare di essere qualcuno, ma, se il destino non ti ha assegnato un ruolo principale, alla fine non riuscirai ad emergere. Ed è così che nascono gli antagonisti, gli antieroi, i rivali, i nemici o come volete chiamarli. Persone con un sogno, una speranza, un desiderio… che gli è stato portato via. Persone distrutte, abbandonate e disprezzate, soltanto perché volevano essere qualcuno.  

Li disprezzavo pure io, con tutto il cuore. Poi iniziai a capirli. Nella mia vita ho sempre pensato di essere il protagonista, tutto era perfetto. Avevo una famiglia stupenda, degli amici fantastici, ottimi voti e una reputazione magnifica, ma soprattutto… avevo lei, ma me ne resi conto troppo tardi.  «Il campo di rifornimento due è stato abbattuto! Vai subito a riconciliarti col tuo gruppo, soldato Braun!» mi disse il caporale, mentre un’altra bomba esplodeva. La guerra civile era scoppiata, la capitale si era messa contro tutto lo Stato. Non importava più il tuo ceto sociale o la tua ricchezza: se non abitavi nel centro o non ti eri candidato alla loro istituzione militare non contavi nulla. Quella città era così potente che nessuno avrebbe potuto fermarla.

C’era già stato un attacco, o meglio, un’invasione, anni prima. Stavano cercando persone con un tipo di sangue che fosse compatibile con i nuovi macchinari da loro creati, ma non chiesero a nessuno il consenso. Più di cento persone furono strappate alle famiglie per diventare cavie e poi armi, e nessuna fece mai ritorno a casa. Fu l’ultima volta che la vidi, me la portarono via. Mentre raggiungevo il mio gruppo, un’altra mina esplose. Le urla e i gemiti di dolore mi riempivano le orecchie, lasciando un segno indelebile nella mia mente. Iniziai a correre senza rendermene conto, la gola bruciava e gli occhi cercavano di piangere lacrime invano. I miei compagni, amici, fratelli… quanti ne avevo visti morire in un solo giorno, e il ricordo della loro morte mi avrebbe segnato a vita. 

Quando mi avvicinai al campo due udii altre esplosioni e spari e, senza neanche avere il tempo di rendermi conto di cosa mi circondasse, venni scaraventato contro un muro di un edificio ormai distrutto. Terrorizzato, provai a nascondermi pensando a quanto patetico dovevo essere in quel momento. Cercai di abbracciarmi le ginocchia ma, non appena le sfiorai, un dolore lancinante mi pervase la gamba. Il ginocchio pulsava freneticamente e del sangue iniziò a sgorgare da una ferita sotto ad esso. Una scheggia era infilzata nella parte alta del polpaccio destro. Dovevo toglierla, oppure sarei stato lì fermo per tutto il tempo, senza possibilità di fuga o di difesa. Lentamente divaricai le gambe, cercando di non concentrarmi troppo sui nervi che impazzivano dal dolore. Con le mani sporche di sangue cercai di separare il tessuto dei pantaloni dalla carne; era penetrata in profondità e per rimuoverla il supplizio fu immenso. Dalle profonde tasche dei pantaloni tirai fuori un fazzoletto ancora pulito, ricamato di azzurro sui bordi delicati. Lo osservai pigramente e, nel momento in cui i ricordi riaffiorarono, le lacrime si fecero strada lungo le mie sporche guance. Mi abbandonai totalmente alle emozioni; i gemiti divennero singhiozzi, che poi si trasformarono in urla. 

Tutto attorno a me si fece silenzioso, persino le mie grida strazianti. Non sapevo neanche il motivo delle mie lacrime. Dolore? Rabbia? Tristezza? Delusione? Mi sentivo talmente debole, insignificante. Tutta la strada che avevo fatto, tutte le persone che amavo, tutto quello che pensavo sarebbe successo in futuro… era veramente questo il mio destino? Cessai di urlare, abbandonato contro il muro, mentre le lacrime cadevano silenziosamente. L’unica cosa che feci fu fasciarmi la gamba col morbido fazzoletto, che ormai si era tinto di rosso. Anche se la ferita non era molto grave, ero certo che sarei morto, ero stanco di tutto ciò. Distesi la gamba buona, chiusi gli occhi, riposai la gola e lasciai cadere il fucile sul mio fianco. Nel silenzio riuscii a vederla, i suoi occhi grigi, riuscii a sentire la sua voce, la sua dolce risata… al pensiero che finalmente avrei potuto riabbracciarla mi sentii sollevato.   Poi il silenzio si spezzò e la sentii veramente. Era per forza la sua voce, la sua risata. 

Spalancai gli occhi e afferrai il fucile, stavo per forza impazzendo, dovevo aver perso troppo sangue. Non poteva essere lei. Nella mia mente vennero proiettati i peggiori scenari. Per qualche istante rivissi il momento della sua cattura.  Il caldo sole primaverile brillava sui piccoli fiori del giardino mentre lei dipingeva tranquilla. Io la osservavo silenziosamente, o meglio, la ammiravo. Lei era il fiore più bello e delicato del giardino, uno di quei fiori che non puoi cogliere, perché rari e pregiati, il cui profumo porta spensieratezza.

In quei giorni le stavo preparando una sorpresa. Avrebbe compiuto vent’anni e volevo renderle quel giorno speciale… sebbene stesse crescendo, l’avevo sempre vista come una bambina, una sorellina da proteggere, ma era già da un po’ di tempo che mi si scaldava il cuore alla sua sola vista. Avrei dato la mia stessa vita per proteggerla. Poi arrivò la tempesta. 

Dal centro della città gridavano di chiudersi in casa, le porte sbattevano e le famiglie correvano, recuperando i figli dal parco giochi. Arrivarono in molti, tutti su grandi e rumorose macchine. Persino il sole si nascose alla loro vista, lasciando il cielo alle pesanti nuvole, che portarono con loro il buio. Militari e uomini col camice scesero dalle macchine e si avviarono verso le case: se non avessi avuto intenzione di aprire, avrebbero provveduto loro. 

Quando arrivarono a casa mia ci fecero sedere mentre, con le pistole puntate, ci obbligarono a tendergli il braccio per prelevarci il sangue. Lei ebbe la sfortuna di trovarsi da me quel giorno: se non fosse stato così, forse sarebbe riuscita a scappare. Risultammo tutti incompatibili, tutti ...tranne lei.  

Appena il risultato comparve sul monitor del loro macchinario, la ammanettarono e la trascinarono con forza verso l’uscita. Mi alzai e le presi il braccio per avvicinarla a me, ma, non appena se ne accorsero, i militari mi puntarono contro le armi. Fecero salire al piano superiore la mia famiglia e poi lo scienziato mi appoggiò la mano sulla spalla, dicendo che capiva il mio dissenso ma che non c’era altra scelta. Se avessi voluto stare con lei mi sarei dovuto arruolare. Il mio cervello si annebbiò e, al posto di rispondere, tirai un calcio al militare che la teneva, provando così ad afferrarla a mia volta, ma l’altro soldato mi diede una spinta sul petto per poi colpirmi in faccia con un pugno… quando provai ad alzarmi mi resi conto che qualcosa mi aveva punto sul collo.

Ricaddi a terra e vidi lo scienziato osservarmi dall’alto, con in mano una siringa. La vista iniziò ad annebbiarsi e tutto iniziò a girare violentemente. L’ultima cosa che sentii fu la voce di lei che gridava il mio nome tra le lacrime, mentre piano piano veniva trascinata verso l’uscita. Da quel momento mi convinsi che ormai fosse morta, o almeno era quello che decisi di credere. Il solo pensiero di lei nelle mani di quei mostri mi distruggeva.  Raccolsi velocemente il fucile e lo puntai a fatica davanti a me. Doveva essere esplosa un’altra bomba, perché l’unica cosa che si poteva vedere era terra mischiata alla fuliggine. E poi comparve una figura. 

Camminava molto piano e teneva con una mano una pistola, mentre con l’altra lanciava in aria un coltello. Era una ragazza. Più si avvicinava, più mi sentivo impazzire.   Arrivò a tre metri da me e si fermò, osservandomi lentamente. Il fumo pian piano si dissolse e finalmente potevo vederla bene in faccia. Era lei. Eccola lì, davanti a me. 

I suoi capelli neri erano legati in una treccia alta e i suoi vestiti erano scuri, soltanto la giacca legata in vita era militare, ma per il resto erano sporchi come i miei. Era diversa, era cresciuta, doveva avere ventiquattro anni, era diventata una donna. L’esile corpo che conoscevo era ora molto tonico e slanciato. I suoi occhi, una volta grigi come il ghiaccio, emanavano una strana luce viola… ma non solo. Lungo le braccia nude spiccavano le vene, anch’esse di un viola molto acceso, che brillavano. Mi alzai e mi avvicinai a lei trascinando una gamba, con l’adeguata cautela. Abbassai il fucile in segno di pace. 

«Viol…» non riuscii a finire la frase che lei, più veloce di una saetta, mi si catapultò addosso e mi ritrovai di nuovo contro la parete. Con un braccio mi bloccò le mani contro il muro, mentre con l’altro mi puntò la pistola sotto il mento. Analizzò il mio volto e uno strano sorriso comparve sul suo volto. Si morse le labbra e le dita si irrigidirono sul grilletto. Avrebbe avuto tutto il tempo per spararmi; invece stava lì a godersi la pietosa scena di me indifeso e ferito. Doveva avermi riconosciuto. 

«Violet… sei tu?» provai a dire a bassa voce. I suoi occhi si spalancarono spaventati e le sopracciglia si incurvarono. Se prima sembrava divertita ora pareva completamente terrorizzata e scossa. Si guardò intorno per un attimo, ma quando aprii bocca si girò di scatto e me la chiuse con la mano che prima teneva la pistola sotto il mio collo. I miei occhi si inumidirono e le lacrime rischiavano di tornare, ma dovevo essere forte.  

«Violet… v-va tutto bene, sono io, Michael. Ti ricordi? Non sei più sola... ci sono io qua con te» e ancora nessuna risposta. Si allontanò leggermente, lasciando cadere la giacca a terra e io feci lo stesso col fucile, ma al rumore estrasse il coltello e tornò verso di me. Sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, allora mi avvicinai a mia volta… ma forse lei lo vide come un segno di sfida. Il suo sguardo tornò serio e, quando eravamo a praticamente un metro di distanza, mi diede una ginocchiata nello stomaco. Approfittando di quel minimo istante in cui ero piegato in due, velocemente mi raggirò per poi bloccarmi di nuovo le braccia dietro la schiena per buttarmi a terra. 

Col viso schiacciato al pavimento provai a dimenarmi, ma lei si mise di peso su di me e, liberatasi una mano, schiacciò ulteriormente la mia faccia. «Michael… si, mi ricordo. Mi ricordo tutto» La sua voce era cambiata, più profonda, più seria. Quando alzai lo sguardo l’unica cosa che vidi fu una donna estranea, fredda, che mi bloccava al suolo. «Violet … sono ferito, fammi alzare. Perché stai facendo tutto questo? Io ti credevo morta e-» non riuscii a finire che lei si mise a ridere. Rise di gusto, osservò il mio ginocchio e si riprese. «Morta? Molto carino. Immagino tu abbia pure pianto… ma sai, forse hai ragione tu. Violet è morta tempo fa ormai» disse con un tono sarcastico, quasi disgustato. 

Si alzò e mi trascinò di nuovo con la schiena contro il muro. Col coltello puntato al petto mi controllò il ginocchio. «Bello il fazzolettino, ma non penso che terrà più di tanto». La guardai allibito e sconsolato, stava giocando con il nodo della mia fasciatura ma, quando provai a muovermi, tornò di nuovo con tutta l’attenzione su di me. «Violet che st-». 

«Te l’ho già detto! Violet è morta! Ora sono Vi» disse urlando. Il suo sguardo era duro, ma mi sembrava spaventata. Come biasimarla. L’avevo abbandonata, non provai mai ad andare a salvarla.  «Viol… Vi, per favore, guardami, sono io, non ti farò del male» provai a dire con quel poco di voce che mi rimaneva. La sua risposta fu ironica, sembrava sul punto di piangere, ma invece rise, di nuovo. Col coltello tracciò i lineamenti della mia mascella, per poi soffermarsi sotto il mento.  «Questo l’ho capito: è da quando sono arrivata che continui a dirmi chi sei» disse scocciata tornando seria. «Non puoi farmi del male, perché lo hai già fatto tempo fa, non ti ricordi? Mi hai abbandonata, lasciata sola contro la capitale». 

«Ma… io non… io non potevo fare nulla, e questo lo sai pure tu! Ho provato a fermarli, c’eri anche tu mentre tentavo… non sarei mai riuscito ad infiltrarmi nella capitale per riprenderti. Sono entrato nell’esercito per questo!». Codardo, mi dissi. Le stavo dicendo la pura verità, tralasciando però i dettagli che neanche io volevo ricordare: dopo il suo “reclutamento” io non feci nulla, caddi in depressione e passai le giornate a piangere. Entrai nell’esercito col desiderio di rivederla perché, forse, mi avrebbero affidato un ruolo maggiore nella capitale. All’inizio mi sentii un eroe, un cavaliere che andava a salvare la principessa… poi gli anni passarono e la mia fiducia svanì.  «Poverino… sai, durante le torture, gli esperimenti, le analisi, i prelievi e molto altro, sentii degli scienziati parlare. Parlavano di una rivolta, e indovina dove? Nella nostra città! Non sai la speranza che provai. Già ti vedevo entrare nella prigione in cui ci tenevano per liberarmi… sono passati quattro anni da quel momento. Le cose sono cambiate». 

Era vero: ci fu una rivolta. Un gruppo di uomini e donne si stavano organizzando per andare a liberare i loro cari. Io provai pena per loro, pensavo fosse tutto inutile. Provai invece sollievo quando furono fermati… sollievo perché potevo dire di avere ragione, senza sentirmi un debole.  «Vi… mi dispiace» dissi tra i singhiozzi «Ero distrutto, pensavo di averti persa per sempre… eri l’unica cosa della mia vita che amavo veramente».

Mi guardò a lungo negli occhi e abbassò il coltello «Mi amavi? Tu eri l’unica ragione per cui tiravo avanti in quel postaccio… ma sai, dopo l’ennesima tortura perdi la testa. Completamente» disse con un tono di amarezza. Si alzò, lasciandomi contro il muro. Fece qualche passo allontanandosi da me, poi, senza girarsi, disse: «Non sono più la persona che conoscevi, neanche lontanamente, e preferisco così. Ora sono una guerriera, sono forte. Puoi dire che sono la loro arma, ma se anche fosse? Cosa cambierebbe? La vita è una guerra continua, tu hai avuto l’occasione di scegliere la tua strada… e io la mia». 

Rise di nuovo malinconica, guardando a terra, poi sollevò di scatto la testa. Si sentivano dei passi.  Arrivarono di fretta dei soldati. Vi puntò la pistola, per qualche secondo, poi la vidi correre. Provai ad alzarmi e ad imbracciare il fucile, ma il ginocchio mi fece crollare di nuovo al suolo. Potevo solo vedere la scena.  Vi uccise i soldati della mia squadra che, non vedendomi tornare, avevano deciso di venire a cercarmi. La cosa fu molto rapida, lei era dannatamente veloce, loro non erano niente rispetto a Vi. Sembrava un mostro. I suoi occhi si illuminarono ancora di più e le vene emanavano una forte luce viola, soprattutto quando correva o usava di forza le braccia. 

I miei compagni erano morti davanti a me e io non avevo fatto nulla per salvarli. Di nuovo. Puntai il fucile al suolo e lo usai per alzarmi. Sopportando il dolore alla gamba, camminai spedito verso Vi. Lei se ne accorse e, questa volta, puntò la pistola contro di me. Mi bloccai di colpo e mi limitai a guardarla impaurito. «Pensi che non sparerò? Poverino, cosa pensi possa impedirmelo?» Guardò velocemente verso i corpi dei soldati che aveva appena ucciso e poi, ridendo, disse: «Sei stato immobile davanti alla scena. Io conoscevo un’altra persona, chi ho davanti è un estraneo». Poi tutto andò a rallentatore. Vi premette il grilletto, il proiettile penetrò nel mio fianco. Poi un altro sparo, ma stavolta non era diretto a me. Alzai lo sguardo dalla ferita e la vidi. 

Lo sguardo vuoto, la risata sparita. Sembrava tornata una bambina, innocente e pura.  Un soldato, gravemente ferito ma ancora vivo, le aveva sparato. Aveva provato a salvarmiIl proiettile era finito leggermente sotto il cuore, lei mi guardò, spaventata, poi cadde a terra.  Ignorai il dolore che mi pervadeva tutto il corpo, cominciai a urlare il suo nome con grida strazianti. Iniziai a correre, mi buttai al suo fianco e la presi tra le braccia. Continuai a gridare il suo nome, cercai di scuoterla, di fermare il sangue, di svegliarla… ma ormai i suoi occhi non brillavano più, persino il viola era sparito. 

«No, no, no, no… Ti prego, ti supplico non abbandonarmi un’altra volta. Ti prego» dissi singhiozzando.  Il destino aveva già scelto la fine del nostro rapporto, aveva già scelto cosa saremmo diventati… e come saremmo finiti. Perché? Perché lei e non io? Vi non si meritava nulla si tutto ciò. Ero io il debole, il codardo, ero io quello che nel momento del bisogno era scappato. 

Lei era il mostro che avevo creato abbandonandola. Non meritava di morire.  Una lacrima le cadde silenziosa sulla guancia e il suo respiro, ormai debole, cessò del tutto. Il destino si sbagliava. Non poteva scegliere chi far vivere e chi far morire. Presi la sua pistola e me la puntai alla tempia.  Questa volta non l’avrei lasciata sola. 


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