17 ottobre 2016
È il 37 dopo Cristo. Nubi fosche all’orizzonte, per Roma. Il 16 marzo la forza vitale abbandona il corpo di Tiberio Giulio Cesare, primo princeps della dinastia giulio-claudia, scomparso a 78 anni. La notizia giunge all’erede designato, Caio Giulio Cesare Augusto Germanico (meglio noto come Caligola), direttamente dalla villa di Capo Miseno, vicino a Capri, dove il defunto imperatore si era ritirato a consumare gli ultimi giorni di un’esistenza inacidita nelle trame di intrighi e dissimulazioni, come riporta lo storico Tacito nei suoi Annales.
Morto un princeps, se ne fa un altro. Perché il neonato impero creato da Ottaviano Augusto non aspetta. È ancora fragile. Teme scossoni. La nobiltà senatoria non aspetta altro che di riprendersi le insegne repubblicane e ridare un senso antico e già dimenticato a quell’acronimo SPQR, che sembra ormai svuotato di contenuti. E allora il futuro “Gaio Cesare, accompagnato da una folla di persone plaudenti, esce a gustare la prima ebbrezza dell'impero”, scrive Tacito. Una successione placida e indolore, dunque? Neanche per sogno.
Proprio mentre Caio Germanico – allora venticinquenne - inizia a godere dei primi onori, giunge la notizia più inattesa e meno gradita alle sue auguste (anzi, non ancora) orecchie: Tiberio ha riaperto un occhio, gli è uscita una mezza voce strozzata dalla gola, ha chiesto del cibo, si sente debole. E l’imperatore, che negli ultimi anni del suo principato era stato di fatto un fantasma, una marionetta nelle mani di consiglieri vari ed improvvisati, sembrava voler perseguitare Roma anche nella morte. A servirlo nella sua ultima richiesta è Quinto Nevio Macrone, il prefetto del pretorio nominato proprio da Tiberio. In altri termini, il capo della sua guardia del corpo. Macrone fa allontanare tutti quanti dal giaciglio dell’imperatore. Alcuni increduli, altri indispettiti, altri ancora sconvolti. Chiunque è pregato con veemenza di lasciar riposare Tiberio. Quando tutto tace, sono allora le mani dello stesso Macrone a soffocare gli ultimi esili respiri di Tiberio sotto le coperte del suo cubicolo. Un omicidio politico in piena regola. Perché no? La ragione di Stato a Roma è motivo sufficiente a giustificare un atto cruento, in nome della pace, del benessere e della prosperità collettivi. E nel nome dello Stato, il prefetto del pretorio arriva laddove anche Madre Natura ha fallito.
L’imperatore è morto, evviva l’imperatore. Un’acclamazione anacronistica nelle parole, al tempo. Ma non errata nella sostanza. Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico aspetta questo momento. Lo aspetta da tempo. Forse lo brama mortalmente: il sospetto che a muovere Macrone sia stato proprio lui è presente nella storiografia romana. È la nemesi: Tiberio stesso lo ha scelto in qualità di suo successore. Non essendo suo figlio, lo ha adottato. Come lui era stato adottato da Augusto. Gaio ha origini militari: suo padre è un potente generale, Germanico, figlio di Druso Maggiore, fratello di Tiberio), la cui fama è acclamata dai suoi soldati, dal senato e dal popolo di Roma. Con Tiberio ancora in vita, non pochi guardano al generale come a un possibile erede, cui accelerare l’ascesa allo scranno imperiale, senza aspettare che la Natura faccia il proprio corso sul fisico malaticcio di Tiberio. Ma Germanico muore improvvisamente – e in circostanze misteriose – nel corso di una campagna militare, in Siria. La coltre del mistero è tanto fitta e spessa che nasce la leggenda (nulla di più, a quanto pare) che il responsabile della morte del generale fosse il figlio, allora un bambino di sette anni. Altri rumores vedono invece ben stretta nella longa manus di Tiberio il pugnale che assassinò Germanico, un rivale troppo scomodo, perché troppo amato dal popolo. Menzogna? Leggenda? O l’ennesima puntata di una sanguinosa serie di morti innocenti?
Ma Tiberio ormai è morto. E Gaio Germanico è l’imperatore. Tutti lo conoscono come Caligola. In latino è un diminutivo, significa “piccolo calzario”. Da bambino Gaio, al seguito del padre negli accampamenti, gioca infatti a indossare le calzature militari come i veri soldati. Scuola Privata Milano
Caligola – perché così, con questo nome, ce lo consegna la storia – può prendersi ora la propria rivalsa. Ma la falsa partenza del suo principato dovrebbe metterlo in guardia: non vi sarà qualche insidia sul cammino? Eppure non è ancora tempo per queste domande, nella mente di Caio. L’ingombrante zio – tanto tenebroso quanto instabile – ha lasciato campo libero. Gaio non lo rimpiange, come molti altri. Quando a Roma è data per certa la notizia che Tiberio è spirato, festeggiano tanto i senatori quanto la plebe. Una rara convergenza di interessi sociali. Ma sarebbe durata?
Gaio Germanico è il terzo imperatore di Roma. E il terzo dei Giulio-Claudii. Anche per lui, dunque, il fardello non da poco di un sangue nel quale scorre la gloria di Giulio Cesare e di suo figlio Ottaviano. È nato il 31 agosto del 12 ad Anzio. Sua madre era Agrippina Maggiore e, tramite lei, Caligola vantava una discendenza da Augusto, essendo Giulia, figlia di Ottaviano, sua nonna materna. Quando assume il titolo di princeps, l’estensione dell’impero è già tale da cingere tutto il Mare Nostrum (escluso un breve tratto della costa africana). Chiunque abiti su questo esteso territorio aspetta di trovare in lui un imperatore più giusto e fermo del precedente. Roma però è in bilico, e non lo sa. Da un imperatore vittima delle sue stesse manie di persecuzioni a un altro afflitto da visioni megalomane, il passo è breve. E non attende molto a compiersi. Il primo anno di principato sembra procedere nella normalità. A innescare un’inversione di tendenza potrebbe essere stata la morte dell’amata sorella Drusilla, seguita a distanza di breve tempo da una grave malattia, che ridusse Caligola in fin di vita e dopo la quale l’imperatore cedette senza sosta alle sue follie, senza più limiti. Addirittura, il plebeo Publio Afranio Potito, che aveva pronunciato un ex voto per la guarigione dell’imperatore (la propria vita per la sua), ricevette il saldo della sua devozione tramite la notifica della propria condanna a morte.
Non che la vita di Caligola, prima di questi ultimi due eventi, fosse stata semplice. Sempre al seguito del padre nelle campagne militari, Gaio torna a Roma con la madre e le sorelle dopo la morte di quello, nel 19. Tiberio non vede di buon occhio la loro permanenza nell’Urbe. Agrippina è oggetto di atti persecutori. Tiberio riesce nell’intento di mandarla in esilio, dove la donna trovò la morte. I suoi figli furono accolti dalla nonna Antonia. Sotto il tetto della donna Caligola ebbe rapporti incestuosi con le sorelle, in particolare con Drusilla. I due furono scoperti da Antonia e separati. Gaio raggiunse lo zio a Capri in quanto erede designato. Da allora un’ansia di vendetta si impadronì del futuro princeps, costretto a vivere con l’uomo che aveva distrutto la sua famiglia, ma che al contempo gli avrebbe aperto le porte del palazzo imperiale, con la nomina a suo erede.
Lo storico Svetonio, nel De vita Caesarum, ne delinea un ritratto inquietante, a tratti istrionico, a partire dall’aspetto fisico, dalle fattezze del volto in particolare: non ha quasi capelli a dispetto dell’età, ma ciò che più colpisce sono i suoi occhi incavati, che assomigliano a bracieri dove arde un fuoco inquieto. Quegli occhi nascondo un segreto. Forse più d’uno. Ma per ora ciò non sembra interessare nessuno. La buona notizia è la scomparsa di Tiberio: quello che sarà dopo non potrà che essere meglio. E Caligola sale al potere acclamato da tutti. È giovane. È il figlio di Germanico. E per questo anche l’esercito guarda a lui con simpatia, in virtù della sua infanzia vissuta nei castra. Istituto Tecnico Turismo
È che il “taglio” sia di tipo militare appare chiaro fin da subito. La prima questione cui il nuovo imperatore intende porre rimedio in maniera preventiva è liberare il campo da rivali reali o potenziali, o presunti tali nella colorita vivida immaginazione di Caligola. Fra i primi a farne le spese vi sono la nonna Antonia (spia dell’amore segreto per Drusilla), che viene indotta al suicidio; il prefetto del pretorio Macrone e tale Tiberio Gemello. Macrone paga la sua eccessiva solerzia nell’aver riscaldato con tante coperte il povero e debole Tiberio (chi ha ucciso una volta un princeps, può farlo una seconda, no?). Gemello, il fatto di essere stato indicato dal precedente imperatore come possibile erede al pari di Caligola. Il quale, dunque, teme la rivendicazione di una coreggenza che forse quel poveretto non avrebbe mai osato chiedere da sé, ma restava aperta la porta a una possibile strumentalizzazione da parte di qualche avversario politico. Appare peraltro originale l’accusa rivolta a Gemello: la sa colpa conclamata sarebbe stata quella di avere un alito troppo simile all’odore degli antidoti usati contri i veleni. In poche parole, l’accusa è quella di essere un potenziale attentatore alla vita di Caligola. Ma la fantasia dell’imperatore si mostra tanto più sovreccitata, se si pensa che egli inizia ad andare a caccia di nemici in una riserva protetta: il senato. Che, fra l’altro, lo aveva salutato con favore alla sua acclamazione. Nella mente di Caligola, tuttavia, il senato era il senato: i nobili di Roma, coloro che vantavano la propria discendenza direttamente da Romolo, sedevano lì e lì discutevano di ciò che fosse meglio per Roma. E dell’antica libertà della Res publica di un tempo. Eliminarli, eliminarli, quanti più possibile, e velocemente: l’imperativo di Caligola diviene inappellabile. Una sorta di ossessione, un delirio nel cui braciere si consumano progetti e cospirazioni: dall’umiliare il senato con la stravagante mossa – come vuole la leggenda – di nominare senatore il proprio cavallo Incitatus, all’omicidio prezzolato. Ad ogni modo, l’aneddoto – che per alcuni dovrebbe costituire la prova provata della follia del princeps – non è altro che il segno evidente ed esplicito del disprezzo che Caligola nutre ogni giorno di più per quella che per lui è una classe di oziosi parassiti, che ingrassano senza fare nulla, tanto da poter essere sostituiti senza danno persino da un cavallo.
I ritratti di Caligola trasmessi dalla storiografia romana ne hanno rese proverbiali l’ira e le sfuriate in cui quella si manifestava. Cassio Dione ne rimarca l’incostanza, l’incoerenza e l’imprevedibilità: scrive che l’imperatore amava alternativamente la compagnia e la solitudine; cercava gli adulatori, ma ne era talvolta infastidito; detestava che gli si richiedesse qualcosa, ma allo stesso modo si innervosiva se non riceveva richieste; lasciava impuniti crimini efferati, ma condannava a morte gli innocenti. In questo quadro quasi schizofrenico rientra il vezzo di pretendeva gli onori riservati a un dio, come nella tradizione della monarchia orientale, la stessa contro la quale aveva lottato Ottaviano e che aveva sconfitto nella battaglia di Azio nelle persone di Cleopatra e Marco Antonio, additato come nemico della patria, colpevole di essersi lasciato soggiogare dalla regina egiziana e di aver tradito i mores latini. Roma, memore di questo, è sbigottita al cospetto di un cerimoniale di corte che fa pensare a un sovrano assoluto d’Oriente. È un crescendo: l’obbligo della proskýnesis, ossia di inginocchiarsi per rendere omaggio al princeps, genera orrore e ripugnanza. Si diffonde la voce che il sogno dell’imperatore sia quello di ricollocare la capitale dell’impero ad Alessandria d’Egitto. L’imperatore aveva assunto il titolo di “principe” a significare la sua condizione di primo fra i senatori: tale era l’origine del nome. Roma – che pure vivrà deviazioni orientaleggianti più volte e ben prima della nascita della corte bizantina – non è ancora pronta a una svolta così radicale. E quando Caligola pretende che una buona parte delle sostanze conservate nell’erario siano spese per edificare un tempio a lui dedicato, iniziano a diffondersi voci e dicerie sul conto dell’imperatore. Sul conto di quel Caligola che avrebbe dovuto risollevare Roma dai nefasti esiti del principato tiberiano. Si diffonde negli ambienti di Roma il racconto di una cena nel corso della quale Caligola avrebbe offeso un ospite, ridendo di lui in modo scomposto, per poi affermare che la ragione di tanta ilarità risiedeva nel fatto che l’imperatore stava pensando alla morte dell’uomo. Che, del resto, non sarebbe sopravvissuto alla cena. Al matrimonio di Gaio Calpurnio Pisone, fece prelevare la sposa, Orestilia, e ordinò di comunicare al marito il divorzio; la donna lasciò il palazzo imperiale dopo pochi giorni, il marito la riprese con sé e, in tutta risposta, Caligola li fece esiliare entrambi, ma con destinazioni diverse. Ancora, accusò un cavaliere di aver offeso la memoria della madre e lo costrinse a combattere nell’arena (dove peraltro spesso chiamava a scendere degli spettatori scelti a caso nella folla), ma poiché il cavaliere vinse, Caligola lo fece trucidare. Riservò la stessa sorte a persone comuni, colpevoli solo di non prendere le parti del favorito dell’imperatore nell’arena. I suoi sicari erano selezionati fra coloro che erano più abili nell’uccidere lentamente: se Caligola ordinava un omicidio, la morte del malcapitato non poteva essere istantanea. Possibilmente, doveva concludersi con l’odore della putrefazione delle viscere della vittima per le strade della città. Scuola Paritaria
Del tutto folle e maniacale? O solo un capo politico consapevole della precarietà del potere e che, in quanto tale, lo regge con crudele determinazione? Gli storici latini che parlano di Caligola sono attendibili fino a un certo punto: autori linguisticamente raffinati, ma vissuti in età imperiale e di ideologia repubblicana, non sono generosi nei confronti dei principi. E anche Caligola – come Tiberio prima di lui e Claudio o Nerone dopo – finisce per essere il protagonista di una drammatizzazione grottesca e tragicomica. Appare infatti del tutto alieno al rispetto di normali regole di convivenza civile, tanto da compiere scelleratezze pressoché ingiustificabili, senza mai manifestare alcun senso di colpa. “Mostro”: così lo definisce nelle sue pagine Svetonio. Caligola appare come un tiranno depravato, che si accoppia con la sorella, frequenta regolarmente i bordelli di Roma e che, per non perdere tempo, ne apre uno all’interno del palazzo. Segni particolari: essere al di sopra delle righe. Folle? Malato? Traumatizzato da un’infanzia funestata da lutti famigliari? Affetto da saturnismo? Forse. O magari no. Forse in quel lustro scarso in cui Caligola fu imperatore ebbe una chiara e lucida visione del potere che gli era capitato fra le mani, tanto da strumentalizzare le proprie stravaganze per prendersi gioco dei senatori, del popolo, di Roma, della stessa istituzione imperiale, e per trarne quindi tutto ciò che poteva bilanciando il metodo più efficace: bastone e carota. Ma senza motivazioni, almeno in apparenza. E sempre secondo modalità improntate all’eccesso.
Cassio Dione afferma che sotto il suo principato – che non durò neppure cinque anni – furono arruolati 250 mila uomini, un’esagerazione anche per la bellicosa Roma! Come a dire: troppo in tutto, perché io sono Caligola. E ancora Svetonio riferisce di un Caligola impegnato a debellare una rivolta scoppiata in seno alle truppe stanziate sull’alto Reno. Era il 39. Sconfisse i rivoltosi. E a successo ottenuto ordinò all’esercito di muovere per invadere la Britannia. Per poi fermare tutto e tutti, e ordinare ai soldati di immergersi nel Reno per setacciarlo a fondo e portargli delle conchiglie. Perché? È la prima domanda, probabilmente l’unica che abbia senso. Ma non sempre una domanda ragionevole conduce a una risposta analoga. Non nel caso di Caligola, certo, malato di epilessia che fosse o solo assetato di sangue e potere. E di ricchezza. Perché le sue stravaganze non risparmiavano neppure il comparto delle finanze. Con tutti i danni arrecati allo Stato, Tiberio per lo meno aveva risparmiato il fiscus: quando Caligola diventò princeps, le casse dello Stato contavano circa due miliardi e settecento milioni di sesterzi. Nel 38 – a un anno dall’acclamazione imperiale – erano vuote. E allora Caligola dovette ricorrere a prelievi forzosi. A danno di chi? Ma dei senatori, naturalmente, che dovevano essere abbattuti con ogni mezzo. I beni di molte famiglie aristocratiche furono confiscati, e senza neppure una valida giustificazione, che non fosse una vaga accusa di lesa maestà, per lo più presunta e mai comprovata.
Come e perché si arrivò a tanto? A forza di elargizioni al popolo, di giochi e feste indetti per sollazzarlo – abile strategia demagogica, del resto gli imperatori romani furono maestri nella demagogia panem et circenses – il denaro andò presto scemando. Con un incremento esponenziale di uscite quando Caligola iniziò a giocare all’imperatore d’Oriente e a circondarsi del munifico e opulente fasto che avrebbe dovuto essere il segno distintivo della eccellenza del proprio principato agli occhi del mondo. E anche qui tornò comodo il “povero” cavallo senatore – strumento di propaganda in un periodo che ignorava la protezione animali –, che ricevette in dono una stalla in marmo e avorio. L’elenco potrebbe continuare. Un certo Livio Germinio ricevette una somma pari a un milione di sesterzi solo perché raccontò a Caligola di aver visto la sorella defunta dell’imperatore a colloquio con gli dei in un sogno. Un auriga ebbe in dono il doppio della somma, e non ne conosciamo la motivazione (forse la visione della sorella era, tutto sommato, a buon mercato).
Che il principato di Caligola non potesse durare a lungo né attendere la morte naturale del suo protagonista, divenne una tentazione ogni giorno più forte. Gaio Germanico, detto Caligola, trovò la morte il 24 gennaio del 41, vittima di una congiura pretoriana, che non risparmiò neppure la moglie Milonia Cesonia e la figlia Giulia Drusilla, ancora bambina. E allora la domanda su quale sia la vera pazzia torna prepotente nella fine cruenta dell’intera famiglia e di chi era innocente per natura. Forse la follia non è che la maschera preferita da chi non riesce a fissare in volto, dietro le maschere, i personaggi nella tragicommedia della storia.