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ANCHE I SORRISI SONO CONTAGIOSI, PERCHÈ? SCUOLA TECNICA TURISMO S. FREUD

20 maggio 2016

È un’inclinazione innata che ci consente di conoscere le espressioni facciali altrui, e individuare le emozioni a esse associate.             

“Sorridi, e il mondo sorriderà con te”, ripeteva Oh Dae-su, protagonista del film Old boy, aggiungendo poi: “Piangi, e piangerai da solo”. Una massima di vita di sicuro valore, anche se in realtà sia i sorrisi che le espressioni di dolore tendono a risultare irresistibilmente contagiosi. A ricordarcelo, e spiegarci il perché, è una review pubblicata di recente sulla rivista Trends in Cognitive Sciences: la nostra specie infatti ha una inclinazione innata a imitare la mimica facciale delle persone che ci troviamo di fronte, un istinto che ci aiuta ad empatizzare con gli altri, per capire e sperimentare le loro emozioni.

Quando ritrasmettiamo un’espressione facciale – spiegano PaulaNiedenthal e Adrienne Wood, psicologhe della University of Wisconsin che hanno effettuato la ricerca – tendiamo infatti a rievocare le occasioni precedenti in cui abbiamo avuto un’espressione del genere. In questo modo, quando ci contagia un sorriso (o un espressione indignata) riusciamo a comprendere le emozioni sperimentate dagli altri in pochi millisecondi.

“Riflettiamo sulle nostre sensazioni emotive e originiamo un giudizio su quelle degli altri”, spiega Niedenthal per illustrare in che modo imitare le espressioni aumenti, la nostra empatia. “Ma ancora più importante, come risultato realizziamo l’azione più appropriata: decidiamo di avvicinarci o evitare una persona”. Le nostre reazioni emotive all’espressione facciale che abbiamo imitato cambiano quindi la percezione di quelle dell’altra persona, e forniscono nuove informazioni sul loro valore”.

Imitare le espressioni degli altri è una parte così fondamentale dei meccanismi che ci permettono di provare empatia, che quando non possiamo farlo abbiamo seri problemi a interpretare le emozioni altrui. Capita per esempio in pazienti che patiscono una paralisi facciale a causa di un ictus o un incidente, ma anche se s’impedisce artificialmente la mimica facciale nel corso di un esperimento, e persino nei bambini che usano troppo a lungo il ciuccio. Alcuni studi svolti in passato, spiegano le due psicologhe, sembrano, infatti, comprovare che l’utilizzo esagerato del ciuccio impedisca ai bambini di fare regolarmente esperienza con le proprie espressioni facciali, provocando (in alcuni casi) una maggiore difficoltà nello esperimentare ed esprimere le proprie emozioni in età adulta.

Anche alcuni sintomi dell’autismo potrebbero essere legati all’impossibilità di replicare le espressioni degli altri. “Esistono alcuni sintomi dei disturbi autistici per i quali la mancanza di una mimica facciale è parzialmente dovuta all’incapacità di conservare un contatto visivo”, spiega Neidenthal. “Ovviamente il contatto visivo può essere socialmente sovra avvincente per queste persone, ma in alcune condizioni, incoraggiare questo contatto sembra aiutare lo sviluppo di una mimica facciale spontanea e autosufficiente”.

Per questo motivo, le due psicologhe vogliono ora studiare più a fondo i meccanismi cerebrali responsabili del riconoscimento delle espressioni e della mimica facciale. Comprendere meglio il funzionamento di questa simulazione senso motoria, spiegano, potrebbe infatti aiutare a sviluppare nuove terapie per le patologie legate alla mancanza di empatia.

 


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