SCUOLA SUPERIORE PRIVATA PARITARIA
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TIPOLOGIA B SAGGIO BREVE: “Il paesaggio che racconta” di Daniela Rosa Ferro - SCUOLA TECNICA PARITARIA S. FREUD

25 giugno 2016

Paesaggio. Una parola banale, quasi scontata, nell'uso comune. È paesaggio l'oggetto di una foto scattata in vacanza. È paesaggio ciò che si vede da una finestra di casa, piuttosto che dal finestrino di un'auto, in viaggio. È paesaggio il contesto naturalistico nel quale il pittore “inserisce” una scena. Piuttosto che l'oggetto del quadro stesso. Tutto questo è paesaggio. Questo, e molto altro. Molto di più. Noi stessi siamo paesaggio: quest'ultimo esiste nella misura in cui l'essere umano ne fruisce. Non solo. Il paesaggio è costantemente modificato dalla presenza – alle volte indiscreta, altre volte partecipe – dell'essere umano. Il paesaggio non è “l'altro da sé” rispetto all'uomo. Perché non è semplicemente la Natura tout court. È la natura, nella misura in cui l'uomo ne fa parte, la percepisce, ne usufruisce e la rappresenta.

Da qui, l'esigenza di prevedere una tutela costituzionale del paesaggio stesso: come un soggetto giuridico, come un bene artistico. Come qualcosa di fragile, ma di essenziale, che non può né deve essere violato, proprio nella misura in cui esso esiste nell'interazione con l'essere umano. Il che espone il paesaggio stesso al pericolo, possibile ma non da escludere a priori, di una  azione violenta e irrispettosa sul paesaggio stesso. Ecco che allora Settis, nel suo articolo “Perché gli italiani sono diventati nemici dell'arte” ricorda quanto sia importante che l'articolo nove della Costituzione Italiana si pronunci sulla salvaguardia del paesaggio, in quanto esso, appunto, trascende la natura per ospitare invece un essere umano che, nelle diverse forme in cui si esplica la sua attività, si è incarnato nel paesaggio stesso.

Quest'ultimo, in fondo, finisce per costituirsi come una sovrapposizione di strati, in cui il fulcro essenziale, la forma, l'immagine focalizzata permane, ma attraverso un continuo e graduale, a tratti impercettibile, cambiamento di situazioni contigenti. Sulla stessa tela, una nuova pennellata, ogni tanto. Discreta, sottile, eppure tale da cambiare, se non l'insieme, per lo meno il dettaglio. O la somma dei dettagli. Come spiega Andrea Caradini, presidente del FAI, nel suo discorso tenuto in occasione del convegno nazionale del 2013, il paesaggio non può che essere antropologico. È, mutuando un'espressione utilizzata dal filosofo Agostino di Ippona in riferimento al tempo, “un'estensione dell'anima”. I suoi dettagli si sovrappongono e si stratificano in un insieme casuale, eppure ordinato; razionale, ma originale. Ed empatico. Perché chi gode di un paesaggio non può mai, neppure imponendoselo, prescindere dallo stato d'animo che prova. Il Naturalismo non è in antitesi col Romanticismo o col Simbolismo decadente. No. Sono due prospettive che, al di là delle dispute letterarie e filosofiche, risultano complementari. Lo insegnava già Schelling, parlando dell'unità tra Spirito e Natura come di Assoluto. Certo: la Natura è oggetto di indagine scientifica, condotta con criteri meccanicistici e deterministici, sottoposta al vincolo di causa-effetto. È possibile descriverla con scarna oggettività. Eppure ciò non esclude il raccoglimento dell'artista o del poeta nel grembo della Natura. E allora essa termina di essere tale – persino nell'accezione leopardiana di “matrigna” - per divenire uno spazio del sentimento del poeta. Una tentazione troppo forte, cui non è sfuggito neppure il nostro autore verista per antonomasia, Giovanni Verga, il quale – ben lungi dall'“arido vero” di un Émile Zola intriso di Positivismo, si rifugia nell'ideale dell'ostrica. Eccolo: un paesaggio marino, coi suoi elementi costitutivi, che la letteratura più lontana dall'empatia, che cede comunque alla tentazione di farsi assorbire dall'essere umano. Nel connubio più immediato: Arte e Natura. E come si tutela il patrimonio dell'una – continua Caradini – è inevitabile la tutela della seconda. Anche in una costituzione come quella di Weimar, la repubblica di “cartone”, travagliata e afflitta da crisi politiche ed economiche laceranti (seguirà l'ascesa del Nazismo, non a caso), ma comunque preoccupata di salvaguardare un tesoro essenziale per il benessere di una comunità. Perché ogni comunità umana ha il suo paesaggio, coi suoi tratti distintivi, in un circolo ermeneutico per cui l'uomo modifica la Natura, creando un paesaggio, ma esso stesso, esposto alla visione e al sentimento dell'uomo, influenza quest'ultimo nelle sue scelte e nel suo sentire.

L'Italia, su questo fronte, è al primo posto. Non nella tutela effettiva del paesaggio, rispetto al quale emergono ancora forti limiti: certi “ecomostri” che contaminano le coste o le pendici della catena alpina o le aree archeologiche sono la dimostrazione concreta e un monito vivente che grida vendetta. Vittorio Sgarbi, nel suo intervento in occasione delle celebrazioni per i centocinquantanni dalla nascita dello Stato italiano, parla di una “sacralità” del patrimonio paesaggistico, sottintendendo quindi non solo il vilipendio, ma la natura sacrilega di chi fa oltraggio nei confronti del paesaggio in cui vive o si trova, fosse “solo” per finalità turistiche. Divellere un dito del “David” di Michelangelo, infierire sulla “Pietà”, incidere un graffito su un affresco, sfregiare la Fontana di Trevi (episodi purtroppo reali) non sono atti più o meno gravi dell'inquinamento prodotto dalla presenza invasiva dell'uomo nella Natura. Né più né meno. La gravità è pari. L'ineducazione al valore del nostro habitat, palesemente assente. Da qui la necessità di intervenire sulle nuove generazioni in questa direzione: la famiglia e la scuola, come principali agenzie formative sul territorio, non possono tacere che l'ambiente in cui viviamo, con le sue espressioni naturalistiche e architettoniche, sia figlio nostro: figlio di una tradizione, di una storia, di una mentalità, di un modo di pensare. Figlio della storia di un popolo. Che è esso stesso storia. Sempre che ciò significhi (anche) civiltà.

 

 


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